Le mie prime 5 grandi convinzioni su Milano

Ormai è qualche mese che vivo qui, povera me. Vivo in una graziosa e verde periferia tra Monza e Milano, lavoro in centrissimo.

Probabilmente il signoreddior ha capito che se non mi avesse messo almeno quattro piante intorno, sarei definitivamente impazzita, quindi vivo in una casa con un giardino che sembrano cinque e lavoro attaccata a uno dei pochissimi angoli verdi di questo lago di cemento.

Milano non è neanche brutta però è tutta grigia. Occhei, il grigio è elegante…ma il verde mi sta che è una meraviglia.

Il centro di Milano è un buco e sta tutto intorno al duomo, non c’è un albero manco a morire, in compenso fioriscono butic meravigliose.

I milanesi più che simpatici sono gentili. E facceli pure stronzi, direi.

Gli autoctoni continuano a usare indefessamente la parola “terrone” e “terronata” come nulla fosse, continuano a dire “ma a Roma i negozi aprono alle 11.00” il tutto davanti al mio accento tutt’altro che ambiguo. Lo dicono come se io dovessi capire, perché quella è la verità rivelata.

Milano mi sembrava culturalmente vivissima, vista da Roma, invece mammancopegnente: la stagione teatrale è pressoché una schifezza e quei due teatri che ho visto non avevano manco il riscaldamento.

Comunque, critiche a parte, ecco le mie prime cinque grandi verità sulla città della Smadunnina:

5- A Milano le ragazze sono tutte magre. Tutte: le milanesi doc e quelle di importazione, c’è una quantità di donne alte e magre che fa spavento. Generalmente hanno anche degli orribili piedi lunghi (i piedi sopra il 37 scarso non dovrebbero essere ammessi sulla faccia della terra).

Non so se riuscirò mai ad ambientarmi. Belle eh, intendiamoci, ma troooooppo lunghe!

4- A Milano gli uomini portano i legghinz.

Ora: fanno schifo sul 99 per cento della popolazione femminile, quelle poche che stanno bene dimostrano comunque un dubbio buongusto, cosa cacchio spinge un uomo – seppur omosessuale – a mettersi su una roba del genere? Tutti co ste zampe secche e ste camicette di ginz o a quadri, sti cappelli fintoboemièn- verogrezzèn, tutti a fare i Pete Doherty del Giambellino. Un grosso: vestiteve!

3- A Milano si mangia al napoletano/al toscano/all’umbro/al messicano.

Il massimo del tipico che si trova è la “Risotteria”. In realtà io sono convinta che il vero piatto tipico milanese sia il sushi. Buono così altrove non ce n’è (forse tranne che in Nippone). In alternativa il piatto tipico potrebbe essere il Giropizza. Per chi ha la fortuna di non sapere cosa sia, lo spiego io: si va in un posto e si spendono 12 euri fissi più cinque euri a bottiglia d’acqua. L’ambiente è una specie di capannone industriale che in qualunque altra parte del mondo ospiterebbe un’officina. Nelle lande lombarde, invece, ospita tavolate e tavolate mal tovagliate, i camerieri sono dei muli da soma con delle cinghie alla schiena, portano in grembo vassoi grossi come il tavolo de mi nonna con due maniglie ai lati, lì sopra campeggia sto metro tondo di una roba secca e asciutta condita solo ed esclusivamente male (tipo frutti di mare e pesto)  che si può mangiare fino a scoppiare. Praticamente un suicidio assistito.

2- I milanesi sono convinti che la loro città sia “lu centru de lu munnu”. Forti della definizione “capitale della moda”, si avvalgono del primo lemma applicandolo in senso assoluto: Milano capitale. In realtà, io che sono abituata alle distanze di Roma, vedo tutto piccolissimo. La metropolitana ha fermate ovunque, il bus si ferma ogni 300 metri…insomma, è tutto mini.

Loro, comunque, pensano di vivere in una metropoli europea, una roba diversa ma comparabile a Parigi. Tutto ciò mi è molto comodo: camminando al massimo dieci minuti in una qualsiasi direzione dal mio ufficio, arrivo a una profumeria.

1- I milanesi accorciano le parole in maniera strana. Nel mio dialetto si accorcia tutto, parliamo velocemente, sforbiciamo ad inizio parola, quanto al centro, quanto alla fine in modo che “dobbiamo andare a scuola” diventa “doemo nnàa scola” passando, senza colpo ferire, da 21 a 14 lettere e fonemi. I milanesi, invece, attenti all’immagine come sono, parlano il loro italiano con le vocali sbagliate e poi fanno alcune scuciture di stile che al mio orecchio suonano come un singolo dei Modà: inutile e dannoso. Insomma, parlando con un milanese sentirete dire: “mi hanno alzato lo stipe, ieri siamo stati al risto, in vacanza vado a Curma”. Ora prendo un pennello da fard e me lo pianto nel timpano.

Queste, comunque, sono convinzioni tutte mie derivanti dall’attenta osservazione del mondo circostante. Insomma, pura opinione opinabile.

La verità incontrovertibile, invece, è questa: i milanesi non esistono.

Non ho ancora conosciuto una persona che fosse una nata a Milano da genitori nati a Milano. Nella mia classe delle elementari ero l’unica umbra di genitori umbri ma di nonni forestieri, insomma la frase “sono umbro” aveva un significato profondo (e terribile, lo ammetto) fatto di polenta col cinghiale, verbi inventati, bestemmie perenni e tanto tanto tanto vino rosso.

La frase “sono milanese” invece significa “sono nato a Cinisello da mamma napoletana e papà pugliese perché mio zio abruzzese s’era trasferito a Rho visto che lavorava a Sesto San Giovanni, comunque sia mi nutro di aperitivi e voto Lega Nord”.

arigatò para o casal

Circa 4 o 5 anni fa chiamò una collega di mia madre a casa di mia nonna. Sapeva che la mia ava possiede una casa più grande di quanto le serva, con tanto di stanza da letto inutilizzata. Le chiese se poteva ospitare una ragazza giapponese desiderosa di testare la vita rurale italiana e di imparare a cucinare. Lo so che l’idea di una nipponica che fa il cinghiale in umido è alquanto bizzarra, ma tant’è. (Ho scritto tant’è perchè pare che nei blog sia molto in voga). Insomma questa ragazza arrivò e stette con noi una settimana in cui fece milioni di foto, non capì un beneamato mazzo di ciò che dicevamo, pronunciò suoni in libertà inframezzati da ETHOOOO e poco altro. Però rimanemmo in contatto fino a scoprire che aveva mollato il lavoro e si era trasferita a sciacquare gli ideogrammi in Arno per un anno. Passò qualche giorno a casa nostra ad aprile, alla ricerca disperata di un fidanzato italiano. Che poi, dico io, bella mia: secondo te io che faccio da 25anni25? Me gratto la panza?

Beh, lo volete sapere com’è andata a finire?

Oggi sono stata al suo matrimonio.

Con un paulista.

A Scandicci.

E la sua testimone era di Seul.

Scusate se è poco.

Beh, c’erano il padre e la madre di lei che sono i giapponesi più giapponesi del Giappone. Tra l’altro il padre era la reincarnazione nipponica di Enrico Mentana. I-den-ti-co.mentana giappo (vedi immagine al lato). Ci mancava solo Oliver Atton, a dire il vero. Poi c’erano una serie di brasiliani che parlavano fiorentino ma con aji alla fine. Poi quella di Seul e quel gran pezzo d’uomo che è suo marito (italico). Due milanesi seduti vicini a me. Poi  un albanese con tanto di anellazzo d’oro quadrato che manco il lider degli Spandau Ballet ai tempi d’oro. Poi una napoletana col marito lucchese e bambinello. Degna di nota la di lui mise: completo nero e camicia bianca con cravatta scura ma – ripeto ma – cinta tarocca con logo D&G….savasandir… Coppie miste di rara bellezza, atmosfera rilassata. Io non avevo mai assistito a un matrimonio in municipio, immaginavo fosse più sbrigativo di quello in chiesa ma, ve lo giuro su Galliano, sarà durato al massimo 15 minutini scarsi. Per carità, io lo capisco quel povero assessore comunale scandiccese che avrà passato la notte a ripetere i 32 cognomi dello sposo e i nomi a origami della sposa e della testimone ma insomma, almeno le felicitazioni poteva augurarle. In italiano.

Le uniche vestite molto bene erano tre giapponesi che indossavano davvero italiano, ho intuito un Valentino nell’abito della seullese. Le italiane erano in prettapporté cinese. Lo sposo aveva un fiore all’occhiello 5 volte il buché della consorte. Io ho messo l’unica gonna che attualmente mi contiene e perle a badilate. E occhiali da sole da gran signora, ofcorz.

Abbiamo tirato il riso ma non il pesce crudo e poi siamo andati a pranzo. Un castelletto scandiccese patria di Slofud in cui ci siamo ingozzati di robe buonissime. Tipo un sacco di bruschettone piccanti con la verza, col patè di broccolo, con le melanzane, col radicchio…Insomma, per capirci: adesso manco quella gonna mi contiene più. Ma come di può resistere alla lasagna alla zucca? Non si può, esatto.

E io ho capito una serie di cose da questa giornata:

1.non serve fare 3 primi e 4 secondi perchè un pranzo di matrimonio sia riuscito, purché ci siano crostini di milioni di tipi

2. partendo dal dato di fatto che il Brasile è un grande paese nonché un paese grande e densamente popolato e io parlo pure portoghese, nei prossimi sei mesi potrei sposarmi

3. Scandicci e Novi sono due posti in cui si mangia bene e si ammazza anche meglio

4. devo mettermi a dieta ma voglio fare la dieta del crostino

5. quando si va a un pranzo di matrimonio in cui almeno uno degli sposi è giapponese e ci si siede vicino a due italiani sulla trentina è assolutamente inevitabile (e credo che sia anche cosa peccato) parlare di Olli e Bengi, Bia, Origami, Giuggizzu, Susci, secsisciop alla giapponese,  Sampei e quanto sia difficile mangiare con le bacchette, si commenterà anche che come mangiamo bene noi italiani non mangia bene nessuno

6. io sono e resterò una giovane donna romantica